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Approfondimento alla sentenza n. 245/2020 con cui il Tribunale Penale di Isernia ha assolto dal reato di molestie un uomo assistito dall’Avv. Danilo Leva – ”Quando una condotta molesta è espressione del profilo caratteriale di una persona non risulta integrato il reato di cui all’art. 660 del codice penale”.

Approfondimento alla sentenza n.245/2020 emessa dal Tribunale Penale di Isernia in composizione monocratica il 18 settembre 2020 n. 245/2020 e depositata in cancelleria in data 09.10.2020.

Molestie e disturbo alla moglie separata – Atto di denuncia-querela sporta nei confronti dell’imputato – assoluzione dell’imputato dal reato di cui all’art. 660 c.p. perché il fatto non sussiste.

Assoluzione dell’imputato dal delitto a lui ascritto perché il fatto non sussiste. Il Tribunale penale di Isernia ha ritenuto i comportamenti posti in essere dal prevenuto – ed oggetto di censura – come “caratteriali”, espressione del modo di essere del medesimo, di un suo modo tipico di comportarsi e, pertanto, non penalmente rilevanti.

(Omissis)

1.Il fatto

Con l’emissione del decreto di citazione a giudizio ex art. 550 c.p.p., disposto in data 21 ottobre 2016 dal P.M. presso il Tribunale di Isernia, l’imputato veniva chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 660 c.p., rubricato molestia o disturboalle persone.

Con la instaurazione del processo, tuttavia, emergeva un compendio probatorio contraddittorio, insufficiente a fondare un giudizio di penale responsabilità a carico dell’imputato.

Veniva, quindi, escussa la persona offesa, la quale aveva a sostenere che il suo ex marito – non riuscendo più ad accettare la fine del matrimonio – la infastidiva passando di continuo davanti casa e telefonandole più volte al giorno con toni minacciosi.

Durante l’istruttoria dibattimentale le dichiarazioni della persona offesa rilasciate nel corso della sua escussione entravano in contrasto con le altre numerose prove testimoniali raccolte nel corso del processo.

Orbene, alla luce delle risultanze emerse al termine della fase istruttoria, le parti addivenivano alla formulazione delle rispettive conclusioni.

L’organo giudicante adito, letto l’art.530, co 2 c.p.p., assolveva l’imputato dal reato a lui ascritto perché il fatto non sussiste.

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2. Gli elementi costitutivi del reato

Il reato in esame ed oggetto – in questa sede – di approfondimento, è previsto e punito dall’articolo 660 del codice penale, secondo il quale “chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda fino a 516 bis”. Il bene giuridico che la norma incriminatrice mira a tutelare è l’ordine pubblico, finalizzato al mantenimentodella civile convivenza.

Ai fini della sussistenza del reato non è richiesta la prova di un concreto pericolo per la salute delle persone, in quanto l’art. 660 c.p. fa riferimento al concetto più moderato di “molestia”1. Il reato, dunque, nella sua estrinsecazione oggettiva, è integrato ogni qualvolta, per petulanza o per ogni altro biasimevole motivo, sia posto in essere un comportamento idoneo a molestare e a disturbare terze persone, interferendo nell’altrui privata e nell’altrui vita di relazione2.

La Suprema Corte di Cassazione ha chiarito, nel tempo, il significato da attribuirsi sia alla “petulanza” che ai “biasimevoli motivi”. In particolare, ai fini della configurabilità del reato di molestie, previsto dall’articolo 660 codice penale, per petulanza: “si intende un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione inopportuna nella altrui sfera di libertà”3, mentre quanto al biasimevole motivo: esso indica in via del tutto residuale ogni altro momento riprovevole in se stesso o in relazione alle qualità o condizioni della persona molestata e che abbia su quest’ultima gli stessi effetti della petulanza4.

Quindi, nella copiosa casistica relativa alla fattispecie in esame, integrerebbe ad esempio il delitto di molestie la condotta di colui che effettua numerose telefonate, anche nel cuore della notte, sull’utenza telefonica del marito della propria amante5. Pertanto, la condotta deve minacciare la tranquillità della persona offesa e ciò può verificarsi anche nel caso di semplici contatti telefonici, ancorché di breve durata, ma protratti nel tempo6. Tuttavia, i giudici della Suprema Corte di Cassazione sostengono che integra la contravvenzione de qua la condotta di chi altera dolosamente, fastidiosamente e importunamente lo stato psichico di una persona, con azione durevole o momentanea, stabilendo che il reato di molestia di cui all’art. 660 c.p. non è necessariamente abituale, per cui può, per altro, essere realizzato anche con una sola azione di disturbo o di molestia, purché ispirata da biasimevole motivo o avente il carattere della petulanza, che consiste, come visto in precedenza, in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata di altri o nell’altrui vita di relazione7.

Sul piano dell’elemento soggettivo del reato, unanime opinione, parla di carattere  doloso, nella forma del dolo generico.

Trattandosi di reato comune, sul piano del soggetto agente, può essere commesso da chiunque e in forma libera che si perfeziona col verificarsi dell’evento dannoso. Quanto al soggetto passivo, invece, molestia e disturbo devono raggiungere una persona determinata e non il pubblico in genere o una parte di esso. È un reato procedibile d’ufficio e di conseguenza, quando il fatto sia perseguibile anche per minaccia (o altri illeciti a querela), in virtù dello schema del c.d. reato complesso, l’assenza della querela o la relativa remissione non influiscono sulla procedibilità dell’azione medesima.

Da ultimo, il reato di cui all’art. 660 è stato qualificato come reato plurioffensivo in cui persona offesa è anche la persona fisica sulla quale si riverbera l’azione del colpevole, pur se l’incriminazione sia prevista a tutela di un interesse pubblico  generale.8

3. Considerazioni finali

Giova, infine, effettuare una riflessione tesa a chiarire che, spesso, detta ipotesi di  reato viene analizzata sulla base della denuncia della vittima, la quale rappresenta l’unica testimonianza su cui il Giudice si trova a basare le motivazioni di una sentenza.

Sul punto, va sottolineato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale la testimonianza della persona offesa, pur non soggiacendo ai canoni ermeneutici di cui all’articolo 192 co.3 c.p.p., da sola può fondare, anche in assenza di ulteriori elementi di riscontro, un giudizio di penale responsabilità nei confronti dell’imputato. Ovviamente, quelle dichiarazioni dovranno essere oggetto di un particolare vaglio critico, poiché provenienti da soggetto portatore di interessi diametralmente opposti a quelli del reo, soprattutto, quando la persona offesa si è anche costituita parte civile.

Nel caso di specie, invece, nel corso dell’istruttoria dibattimentale sono state raccolte anche ulteriori prove dichiarative, le quali hanno fornito elementi a discarico dell’imputato poi favorevolmente valutati dallo stesso organo giudicante. Dichiarazioni, che hanno di fatto smontato le accuse rivolte dalla persona offesa nei confronti del suo ex marito, facendo emergere come quest’ultimo fosse solito comportarsi nel modo descritto dal capo dell’imputazione già ben prima dellaseparazione.

Tant’è che il giudice monocratico, all’esito della discussione, ha ritenuto, proprio le condotte di cui si era reso protagonista l’uomo, raccontate dalla vittima – ancorché dalla stessa ritenute fastidiose – non connotate né dal tratto distintivo proprio della petulanza, né tantomeno contrassegnate dal biasimevole motivo, ritenendole – invece – come “caratteriali”, ossia espressione di un modo tipico di comportarsi dell’imputato e, certamente, non meritevoli di censura in sede penale.

Dott. Fiore Di Ciuccio

1 Cass., Sez. III, 17.5.2016, n. 38141

2 Cass., Sez. I, 2016, n. 8198

3 Cass., Pen. 24.11.2011 n. 6908

4 Cass., n. 12251/1986

5 Cass., Sez. I, 7.3.2013, n. 202000

6 Cass., Sez. I. 13.12.2012, n. 2597

7 Cass. Pen., Sez. I, sentenza del 07/11/2013, n. 32758

8 C., Sez. I, 4.5.2016, n.26801